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Pomeriggio d’inverno, nevica con convinzione da alcune ore. Sto rientrando da una lunga escursione in quota; fatica, freddo e umidità si fanno sentire. Mentre procedo a testa bassa avvolto dal mio poncio e desideroso solo di raggiungere al più presto l’auto, mi rendo conto che inconsciamente il mio sguardo continua invece a scansionare la faggeta in un’incessante ricerca di “qualcosa” meritevole di essere ritratto. Credo che per ogni fotografo di natura sia così; quando siamo lì fuori, magari anche facendo tutt’altro, una parte di noi è sempre alla ricerca di “quel qualcosa”. Nulla attira la mia attenzione e ne sono quasi sollevato: so che la fotocamera giace ben protetta in fondo allo zaino da montagna e mi mette i brividi la sola idea di dover interrompere la mia marcia e con le mani intirizzite e gli occhiali appannati, sfilarmi il poncio, disfare lo zaino e mettermi a lottare con cavalletto, macchina fotografica ed obiettivi alla ricerca di un’inquadratura. Poi scorgo con la coda degli occhi, poco sotto al sentiero, quella serie più ordinata di tronchi; noto che la loro combinazione è armoniosa e non mi sfugge che in quel punto della foresta la nebbia è più persistente, così come è più persistente la neve sulla corteccia; sì, mi piacciono quelle tenui forme che sembrano sparire come fantasmi inghiottite dal bianco. La mia parte creativa propende per una sosta finalizzata alla ricerca di uno scatto; tutte le mie altre parti spingono per tirare dritto verso un caffè caldo. Ascolto la maggioranza e tiro dritto. Dopo una ventina di passi mi pento e inverto la marcia fatalmente ed irrimediabilmente attratto da “quel qualcosa”…