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Fine novembre, primi di dicembre. Nelle vallate alpine si respira un’aria di attesa. L’ospite in ritardo è lui: l’inverno. Le ordinate cataste di legna per alimentare il fuoco delle stufe sono già pronte da tempo davanti alle case, i teli protettivi ricoprono gli orti, le gomme da neve sono già montate sulle auto.
Anche lassù sulle vette, a quota 2.200 m, si respira la stessa attesa: i camosci sono scesi di quota, le marmotte dormono al riparo dal freddo nei loro cunicoli, le pernici, indomiti abitanti delle cime anche nella stagione più difficile, hanno indossato il piumaggio bianco che permetterà loro di risultare invisibili agli sguardi attenti dei predatori. E invece, quest’anno, così come l’altr’anno, ci metto pochi minuti ad individuarle; non devo neanche utilizzare il binocolo. Il loro “sgargiante” candore spicca nel grigiore delle rocce e nel giallo spento dei residui lembi di prateria alpina: l’amica neve le ha tradite nuovamente, esponendole per oltre un mese al pericolo di essere individuate con facilità da aquile ed altri predatori. Si aggirano nervose fra i sassi, cercano inutilmente di mimetizzarsi nel poco ghiaccio formatosi nelle zone in ombra; poi una femmina lascia il gruppo e inizia a salire verso la cima della montagna, quasi volesse verificare se almeno lassù, sul cucuzzolo più alto e più estremo del suo habitat, la candida alleata si fosse degnata di dare una pennellata di bianco. E invece, ad attenderla, un indomito ciuffo d’erba e l’ultimo raggio di quel sole, che qui come altrove, da alcuni anni, sembra essere diventato più caldo.